Aumentano i pesticidi nei punti monitorati delle acque italiane, sia in quelle superficiali (più 20% tra il 2003 e il 2014) sia in quelle sotterranee (più 10%). Lo afferma l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) nell’edizione 2016 del Rapporto Nazionale Pesticidi nelle Acque, relativa al 2013-2014. Secondo le analisi dell’Istituto, le acque superficiali (fiumi, laghi, torrenti) contengono pesticidi nel 64% dei 1.284 punti monitorati (nel 2012 erano il 57%), quelle sotterranee nel 32% dei 2.463 punti studiati (erano il 31% nel 2012). Un campione superficiale su cinque in Italia non è solo contaminato, ma supera anche il livello di qualità ambientale. L’inquinamento è più diffuso nella pianura padano-veneta, anche perché lì sono più frequenti i monitoraggi. Fra le sostanze rilevate più spesso c’è il glifosato, insieme al suo prodotto di decadimento, l’Ampa. La conoscenza del glisofato è stata sdoganata al grande pubblico qualche settimana fa, quando dalla Germania è arrivata la notizia della presunta ‘birra al glisofato’. Alcune marche di birra, tra le più note, sono risultate contenere il composto. L’analisi è stata fatta dall’Istituto per l’ambiente di Monaco su 14 “bionde” nelle quali è stato trovato l’erbicida, derivante dalla lavorazione del malto d’orzo: i livelli registrati oscillano fra 0,46 e 29,74 microgrammi per litro. Per la birra non esiste un limite di legge, ma il glifosato è stato classificato come “probabile cancerogeno per l’uomo” dallo IARC di Lione – International Agency for Research on Cancer. Di recente, proprio per il timore dei Danni sulla salute umana, il Comune di Genova ha bandito l’utilizzo di diserbante al glisofato, rinunciando temporaneamente all’eliminazione del proliferare di vegetazione spontanea allergenica.
«Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che si basa su studi tossicologici (e dunque di reale impatto delle sostanze sulla salute), possono essere ammessi 0,9 milligrammi per litro di glifosato nell’acqua potabile» spiega Luca Medini, direttore di Labcam srl, il laboratorio chimico merceologico con sede ad Albenga. E l’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare) ha calcolato la “dose acuta di riferimento”, ovvero la quantità massima giornaliera che si può assumere senza correre rischi per la salute: 0,5 milligrammi per chilo di peso al giorno. «Questi valori di riferimento vengono sempre calcolati usando la massima prudenza – spiega Medini – se il peso medio di un uomo adulto è 60 chili, ognuno potrebbe assumere circa 30 milligrammi di glifosato nell’arco di un giorno senza correre rischi. E 30 milligrammi corrispondono a 29,74 microgrammi moltiplicati per mille».
Labcam srl ha di recente stipulato una partnership con Aeiforia srl, uno spinn-off universitario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza che si propone come piattaforma permanente per la valorizzazione dei risultati provenienti dalla ricerca nel settore chimico-agrario, agronomico, ambientale ed eco-tossicologico. «I prodotti fitosanitari o fitofarmaci usati in agricoltura – spiega Medini – sono tutti quei prodotti chimici, di sintesi o naturali, che vengono utilizzati per combattere le principali avversità delle piante quali malattie causate da funghi, batteri o virus, insetti o acari ed erbe infestanti». Un prodotto fitosanitario è costituito da uno o più principi attivi che producono l’effetto tossico sull’avversità e da altri componenti inerti che influenzano le caratteristiche chimico fisiche del prodotto. Esistono prodotti fitosanitari il cui principio attivo, invece che da una sostanza chimica, è costituito da microrganismi capaci di agire contro l’agente patogeno.



Sindrome sgombroide e istamina:il commento di LABCAM Albenga
Il caso delle intossicazioni alimentari a Genova del 10 dicembre 2025, con 18 persone soccorse dopo il consumo di piatti a base di pesce (probabilmente tonno), riporta sotto i riflettori un fenomeno tossicologico che spesso è sottovalutato: la sindrome sgombroide, ovvero un’intossicazione da istamina potenzialmente grave ma difficilmente riconoscibile a prima vista.
L’istamina è una ammina biogena prodotta dalla decarbossilazione dell’aminoacido istidina, che è naturalmente presente nei tessuti di molte specie ittiche appartenenti alla famiglia Scombridae — tra cui tonno, sgombro, sardine e acciughe.
Questa reazione non avviene spontaneamente nella carne di pesce fresca: è invece innescata da enzimi batterici che proliferano quando la catena del freddo viene interrotta o quando il pesce è conservato a temperature superiori ai 6-10 °C per periodi prolungati.
Meccanismo biochimico e correlazione con la sindrome sgombroide
In condizioni di deterioramento, i batteri trasformano l’amminoacido istidina in istamina, che può accumularsi in concentrazioni molto elevate. L’istamina così formata è termostabile: non viene decomposta da normali processi di cottura, refrigerazione o congelamento.
Dal punto di vista biochimico, l’istamina ingerita scatena reazioni cliniche molto simili a quelle delle allergie IgE-mediate — arrossamento cutaneo, prurito, nausea, vomito, diarrea, tachicardia, mal di testa — con un’insorgenza rapida, solitamente nell’arco di pochi minuti fino a due ore dopo il pasto.
Studi clinici hanno dimostrato che nei casi di intossicazione sgombroide, esami sulle urine mostrano livelli di istamina e dei suoi metaboliti decine di volte superiori ai valori normali, confermando la tossicità diretta della molecola assunta con l’alimento contaminato.
Il caso di Genova: elementi tecnici di correlazione
Nel caso di Genova:
Aspetti diagnostici e limiti di prevenzione
Dal punto di vista sanitario, la diagnosi di sindrome sgombroide è prevalentemente clinica: non esistono test immediati durante il soccorso per confermare istamina alta nei tessuti ingeriti. I controlli analitici su campioni di alimento e indagini sulla filiera alimentare sono necessari ma richiedono tempo e strumentazione all’avanguardia.
La prevenzione, dal punto di vista tecnico igienico, si concentra su:
Conclusioni tecnico-scientifiche
La recente serie di intossicazioni genovesi conferma un dato noto dalla letteratura scientifica: la correlazione tra accumulo di istamina nei prodotti ittici e la sindrome sgombroide è diretta e determinante, e può manifestarsi anche in assenza di evidenti segni di deterioramento del pesce.
Per operatori e autorità sanitarie, l’evento sottolinea l’importanza di controlli efficaci sulla filiera della conservazione del pesce, nonché la necessità di una diagnosi tempestiva e differenziale con altre forme di tossinfezioni alimentari. Solo così è possibile contenere il rischio di futuri episodi simili.
Luca Medini, direttore LABCAM Albenga
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